Crisi del cinema italiano: Ciak si gira il non Neorealismo
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Crisi del cinema italiano: Ciak si gira il non Neorealismo

Mentre il cinema francese affronta la vita vera, il nostro fatica a raccontare l’Italia di oggi. Su Panorama un intellettuale severo spiega perché

di Goffredo Fofi

Si è detto spesso che «a società sbandata, cultura sbandata». Che non vuole dire cultura morta, e che in certi periodi – quando però l’epoca era di speranza e allo sbandamento si sapeva reagire – ha significato la presenza di una cultura viva e diversificata in una società sbandata. Non tutte le crisi si equivalgono, e quella attuale è molto diversa da quella portata tanto tempo fa dalla guerra. La voglia di ricominciare, scoprire e inventare era allora grandissima, con la convinzione di potere contribuire a una rinascita collettiva con i mezzi della cultura e del cinema come sua forma più popolare. Fino ai primi anni Settanta il nostro cinema ha continuato a nutrirsi, bene o male ma intensamente, degli umori della società.

La crisi di oggi arriva dopo un trentennio di conformismo, benessere diffuso, uominimassa che si sono creduti individui in quanto consumatori, con le derive narcisistiche dell’apparire e dell’arrampicare. Ne siamo usciti frastornati e impotenti anche se c’è chi lotta per restare a galla conservando i privilegi raggiunti e cercando i modi per riciclarsi. È appena dall’agosto dell’anno scorso che l’esplosione della crisi ha dimostrato a tutti la fragilità di un sistema che si credeva duraturo. E tuttavia si direbbe che nel nostro cinema poco per ora sia cambiato. Almeno ancora la crisi non vi incide drasticamente (comincia adesso) e i problemi sembrano gli stessi che durano da anni e sono, come si dice, strutturali. Anche quelli culturali.

Saldamente ancorato a Roma (tecnici, strutture, banche, «salotti») anche se pronto a mungere le film commission regionali, e legato a doppio filo alla tv e ai suoi diktat economici e formali (molto simili tra loro quelli della Rai e di Mediaset), il nostro cinema ha visto cambiare poco le sue norme scritte e non scritte; se negli ultimi lustri del Novecento lo Stato interveniva finanziando con l’articolo 28 il «cinema d’autore» sulla base di progetti cartacei in cui i produttori contavano poco o niente rispetto agli «autori», oggi i produttori tornano a contare, pochi (Tozzi, De Laurentiis, Procacci…), ma questo non è di per sé una garanzia di invenzione e di coraggio, perché essi tendono a uniformare i prodotti e a condizionare gli autori, mentre ieri erano gli autori a venire finanziati e a cercarsi un produttore-organizzatore di gradimento. È ovvio che una maggiore dialettica produttore-autore, sullo sfondo dei tagli dei finanziamenti pubblici, avrebbe un suo interesse, mentre non si può sperare in nuove leggi razionalizzanti, perché nella crisi ci sarà, come in altri campi, un «si salvi chi può» che accentuerà l’anima del clan più di quella corporativa, e vedrà tutti in guerra contro tutti.

Un sistema che funziona deve tener conto del pubblico, degli esercenti, dei finanziatori, degli organizzatori, degli autori, della scuola e delle scuole (il Centro sperimentale prepara per la tv, i Dams forniscono precari o disoccupati solo saccenti), del locale e del nazionale, della varietà delle forme (film a soggetto, ibridazioni tra finzione e documentario, disegno animato, documentario sociale e altro), di festival e rassegne… Un mondo composito e caotico nel quale è sempre più difficile districarsi e che sembra collettivamente preoccupato solo dei red carpet, perché è difficile capire bene qual è il posto del cinema nella società veniente, che, dopo l’ubriacatura degli anni passati, si annuncia come una società di scarsità e di un’obbligatoria austerità. Uno scenario per niente rassicurante.

Arte ormai secondaria, il cinema ha poco pubblico e lo accontenta dandogli surrogati della tv (fiction poliziesche, sentimentali, storiche e «politiche») oppure superspettacoli con supereroi con gli artifizi tecnologici più avanzati (americani). Gli «autori» più o meno degni di questo nome sono pochi nel mondo e pochissimi in Italia, e della vecchia guardia restano sfiancati in piedi solo Ermanno Olmi e i fratelli Taviani, Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, e dopo di loro Nanni Moretti. Meglio Garrone, il cui Reality è a mio parere altrettanto importante di Gomorra, narrando un Pinocchio che sogna di entrare nel paese di Bengodi (il Grande fratello). E Daniele Ciprì con È stato il figlio. Garrone racconta il genocidio denunciato da Pier Paolo Pasolini, la morte del popolo italiano e della sua autonomia culturale: solo che qui il tramite è la tv (l’automobile in Ciprì). Né mancano altri giovani autori significativi (Munzi, Marcello, Frammartino, Rohrwacher, Di Costanzo, Marazzi, Gaglianone, A. Segre, D’Angelo...), che portano spesso nelle loro storie il vigore del documentario, e si danno il compito di ri-scoprire l’Italia e farla riscoprire agli italiani non obnubilati dalla gran chiacchiera mediatica. Proprio come facevano i neorealisti, ma con la differenza che l’Italia di oggi crede poco nel futuro e il pubblico è stato anestetizzato e brutalizzato da 30 anni di vacche grasse e menzogne condivise.

Si esce dal film di Garrone (il premio di Cannes è stato forse strappato dal presidente della giuria, ma almeno così un po’ di italiani vorranno vederlo e ne ragioneranno) con la voglia di rovesciare il cavallo di viale Mazzini o di affrontare Maria De Filippi (e non solo lei, è chiaro, perché l’elenco dei corresponsabili di tanta decadenza collettiva sono tanti e le complicità infinite, e a scagliare le prime pietre sono spesso gli stessi che ne hanno goduto).

Ci si rende conto che il problema del cinema è di essere stato per sette od otto decenni l’artefice di un dialogo spesso entusiasmante con un pubblico popolare di massa e mondiale, e di non esserlo più, di non potere esserlo mai più, perché The times they are changing per quasi tutti, e non cambiano per il meglio. Gli autori bravi o potenzialmente tali ci sarebbero, benché soffocati da una massa di aspiranti autori ancora convinti di farcela, da una critica inesistente o servile, da un sistema legale e finanziario scoppiato, e soprattutto da un pubblico che di tornare a saper guardare e a capire non vuole ancora saperne.

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