Tutto tutto niente niente, Antonio Albanese in Parlamento in tre
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Tutto tutto niente niente, Antonio Albanese in Parlamento in tre

Sotto la regia di Giulio Manfredonia il comico è uno e trino: è Cetto, ma anche Frengo e Olfo. Per uno spaccato di politica italiana di malcostume e corruzione tanto surreale quanto prossimo

Antonio Albanese si fa in tre e dopo Qualunquemente per questo Natale ci propone non solo Cetto La Qualunque, ma pure Frengo Stoppato e Rodolfo Favaretto, ovvero Tutto tutto niente niente, film dal 13 dicembre al cinema. A dirigerlo ancora una volta c'è Giulio Manfredonia, che ho apprezzato più per Si può fare (2008), commedia sul disagio mentale comica ma profonda, che per il connubio con il cabarettista lombardo.

Cetto è il solito Cetto, il politico calabrese sfrontato, volgare, corrotto e affezionato a "u pilu": insomma, la fotografia satirica del politico di oggi.
Il pugliese Frengo, personaggio già nel ventaglio di Albanese, è stato però re-inventato. È edonista e mistico, è trasognato e sempre positivo: con tutto quello che si fuma non potrebbe essere diversamente. Filosofo moderno, lui non si preoccupa dell'aldilà, ma dell'aldiqua. "Cosa c'è dopo la morte? E se ci fosse solo un grande centro commerciale?", si chiede nelle sue orazioni. La pedante madre ultracattolica (Lunetta Savino) ha intanto intenzione di farlo diventare beato, in vita.
Rodolfo, detto Olfo, è un personaggio nuovo di zecca. Ha una sola grande preoccupazione: la secessione del Nord, e una bretella stradale che colleghi il suo paesino veneto, Brachetto di sopra con Brachetto di sotto. L'esercito che sta allestendo è composto paradossalmente da immigrati clandestini, che lui stesso si occupa di recuperare e che utilizza - rigorosamente non in regola - anche per costruzioni edili. E quando uno di questi cade da un'impalcatura, non si fa scrupoli a buttare il suo corpo in laguna, per poi giustificarsi con la polizia: "Il nero l'abbiamo buttato dentro perché era impolverato".

Ognuno per un crimine diverso, Cetto, Frengo e Olfo, si ritroveranno in carcere. "Mi arrestano solo perché ho legato con la mafia?", si interroga stupito Cetto, che al suo fianco ha sempre il fedele Pino (Nicola Rignanese).
Ma i tre possono stare sereni: il loro profilo corrisponde al parlamentare italiano perfetto, abbastanza inutile da votare ogni cosa il partito chieda e con la fedina penale sufficientemente sporca. "Voi avete dalla vostra la scuola del carcere, che non tutti possono vantare", così saluta i tre detenuti-deputati il Sottogretario, l'anima della politica romana, interpretato da un Fabrizio Bentivoglio che nel look e nei modi affettati ricorda il bizzarro cerimoniere Caesar Flickerman di Hunger Games. Ecco che entra nel vivo il ritratto folle ma non troppo distante dal vero dell'Italia di questi anni. Troviamo anche Paolo Villaggio, il presidente del Consiglio, silenziosissimo e occupato per lo più a divorare cibo.

Se, come in Qualunquemente, è sopra le righe il linguaggio utilizzato, altrettanto sopra le righe sono le scenografie e l'abbigliamento, curati rispettivamente da Marco Belluzzi e Roberto Chiocchi: un tocco vincente per dare un effetto di anormalità. Può esserci tanto opportunismo, tanta corruzione, tanto impunito malcostume in Italia? In teoria no, e quindi ecco un'ambientazione surreale e psichedelica. Peccato invece che la realtà si distacchi poco dalla finzione.
I Palazzi della Politica così sembrano strutture rarefatte marmoree (il set è l'EUR), il parlamento è una bolgia da tifo calcistico (ecco infatti come set il palazzetto dello sport progettato da Nervi), gli abiti giocano tutti sulla fantasia e sull'eccesso.
Gli effetti visivi digitali della Chromatica consentono a Cetto, Frengo e Olfo di comparire contemporaneamente in scena e di interagire tra loro senza notare che l'attore è unico e la scena plurima: non male per un lavoro italiano.

In questo circo delle esuberanze, la comicità di Albanese può dispiegarsi libera. Ed è qui il punto: pur apprezzando lo stile della narrazione di Manfredonia e l'arguzia sarcastica dell'attore uno e trino, a me Albanese non fa ridere. Apprezzo che la sua ironia vada a pungere dissacrante e con una certa genialità i vizi italiani, ma non mi fa ridere, proprio no. Riconosco che il suo appeal comico è di certo superiore a quello dei vecchi cinepanettoni, ma non rido. O meglio, riconosciamolo, mi fa ridere davvero poco: di fronte ad alcune scene anche la mia mascella statica si è mossa. "Pino, taglia questa mano, non merita di vivere!", esclama Cetto dopo aver avuto un primo involontario contatto con un travestito. Lì la risata è uscita da sola.

Inoltre, se Rignanese è un'ottima spalla per Albanese, molto meno lo è la Savino, rilegata in un ruolo troppo troppo macchiettistico.

In verità l'Italia che Manfredonia & Albanese rappresentano dovrebbe davvero far poco ridere. Perché l'assurdo che inscenano non è per niente assurdo. Cetto: "Sono al nono avviso di garanzia: al decimo mi regalano la mountain bike".

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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