Io padre, io figlio

Dei miei figli e di come sono cambiate le grandi case editrici italiane Mio padre, gli voleva bene alle parole. Le selezionava, le incastonava, le cesellava, le metteva in fila, una ad una una, con sapienza e pazienza. Era, dicono, …Leggi tutto

Dei miei figli e di come sono cambiate le grandi case editrici italiane

Mio padre, gli voleva bene alle parole. Le selezionava, le incastonava, le cesellava, le metteva in fila, una ad una una, con sapienza e pazienza. Era, dicono, un bravo artigiano della parola. Mio padre faceva il traduttore. Letteratura inglese, i grandi classici americani, saggistica. Di tutto.  Passava il tempo battere sull’Olivetti 22, seduto sulla sua poltrona in pelle nera, in uno studio buio, avvolto in una coltre irrespirabile di tabacco negro, dove io e mio fratello entravamo malvolentieri.

Ricordo la luce fioca della lampada, la tapparella sempre mezza abbassata, il ticchettio, l’odore di fumo e di carne, il giradischi che suonava sempre le stesse canzoni, La Guerra di Piero, Ho visto un re, La gallina non è un animale intelligente. Erano gli anni 70. Anni di piombo secondo la definizione, pigra, che ne diedero i giornalisti che avevano visto un film della Von Trotta.

Era una Milano diversa quella dove sono cresciuto. Una città  in cui noi bambini potevamo passare interi pomeriggi  a giocare a pallone ai giardini, le portinerie non erano ancora diventate lussi per stabili signorili e le case di ringhiera erano ancora quello che erano state in tutto il 900. Ricordo, in quella stanza dove lavorava mio padre, un quadro di Lenin che arringava la folla, un adesivo ingiallito con il disegno di un pugno stilizzato e una scritta – Rosso vivo contro lo sporco mondo dei padroni – sulla quale lo interrogavo, e più lo interrogavo, più mi dava risposte assurde. Chi sono i padroni? Perché sono sporchi? Non si lavano, papà? Niente, non capivo.

Mio padre in realtà non era nemmeno un comunista. Era un intellettuale che frequentava idee radicali, come altri giovani arrabbiati che erano di casa e lavoravano, come lui, presso le grandi case editrici milanesi, la Garzanti, la Guanda, la Mondadori, il Saggiatore, allora palestre di cultura e di idee, a volte  sbagliate, ma pur sempre di idee che potevano diventare onde distruttive o fiori che sbocciano a primavera.  Era un’altra Italia,  tetra ma più vitale, in fermento.

 

Benché abbia fatto i conti anche lui, come i suoi amici, con la rivoluzione femminista, mio padre non imparò in realtà mai a badare a se stesso, né ai suoi figli, ai quali – quando capitava che mamma si assentasse – preparava sempre un uovo in padella, con il rosso immancabilmente rotto. E poi il tè fortissimo delle cinque.  Prima di andarsene era amareggiato, scavalcato da uno sciame di nuovi traduttori che, al cesello artigianale sulla parola scritta, avevano sostituito il software low cost della parola seriale, pagata  poco, non più a cartella ma a forfait, un tanto al chilo. Era quello che cercavano i nuovi editori. Era finito il tempo dei vecchi artigiani della parola come mio padre. Scomparivano, con lui, anche quelle figure di raccordo, artigianali, specializzate sul prodotto, innamorate del  lavoro, che avevano fatto grandi e vitali, perché frutto dell’ingegno collettivo, le grandi industrie culturali e informative italiane. Da Pasolini a Saviano si chiudeva un ciclo. Quando è morto, un noto settimanale italiano gli dedicò, a firma Laura Grimaldi, la signora del giallo italiano, un affettuoso saluto, descrivendolo per quello che era: un uomo anticonformista e inquieto, innamorato del tabacco, del vino (un barberaccio della Val Bormida) e della vita.

Non so che cosa mi abbia lasciato. Non l’affetto contorto che trasmetteva ai figli. Non Lenin, che per me è rimasto quel signore pelato che arringava la folla sopra l’Olivetti, non Deleuze o Tronti di cui parlavano quelli come lui,  nemmeno la traduzione dei Dubliners, per Garzanti, di cui andava così fiero. Forse, da mio padre, ho preso quel-non-so-che che ti rende un po’ più libero rispetto ai tuoi simili. Un fastidio per quelli che s’intruppano per mediocrità o per conformismo, che sono diventate oggi, come giá vedeva Bianciardi, le merci più richieste e remunerate nelle grandi industrie culturali e informative del Paese.

 

Ecco, è questa forse l’unica cosa buona  che ho preso da lui. È questa la cosa che vorrei insegnare ai miei figli Leon e Matilda: essere liberi intellettualmente come il loro papà e, con tutti i suoi imperdonabili difetti, il loro nonno.  Però imparino a volare, a fuggire e a ridere di chi considera il comando una superiore forma di intelligenza. Imparino a cercare sempre nuove strade.  Che quelle vecchie, se ne sono accorti anche quelli dell’adesivo sull’Olivetti, ci hanno portati dritti contro un muro.

 

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Paolo Papi