L'arma sbagliata (come non si parla di genocidio)
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L'arma sbagliata (come non si parla di genocidio)


Io non ho mai tirato di scherma, anche se ipoteticamente mi sarebbe forse piaciuto: si tratta infatti di uno sport elegante, virile senza brutalità, e in un certo senso di un modo bello di sublimare la violenza e la morte degli scontri all'arma bianca trasformandoli in un confronto agonistico. Ma sono un po' goffo, troppo ambidestro anche per decidere con quale braccio tirerei, sicché niente.

Mi pare però, da profano, che certi dibattiti somiglino a incontri di scherma: non basta mettersi lì con coraggio e abilità, anzi a volte conta proprio poco; bisogna invece controllare, prima di tutto, che nessuno trasformi il torneo di sciabola a cui ti sei iscritto in uno di fioretto, per dire, rendendo così inutile ogni tuo affondo, per quanto ben portato. Il genocidio armeno, in fondo, ha subito questa sorte: per decenni, e forse ancora oggi, non se n'è parlato (o, raramente, se n'è parlato) esclusivamente in grazia di circostanze contingenti, dato che le fonti storiche erano già note; e non lo si è riconosciuto perché non si poteva dar fastidio a una parte fondamentale dell'alleanza occidentale - la Turchia - oltretutto a favore di una piccola repubblica del Caucaso sovietico, poi divenuta uno staterello indipendente di nessun peso internazionale. Spiace notare che anche oggi le parole giuste e necessarie del Papa sembrano largamente motivate dal bisogno - anch'esso legittimo, anzi urgente; ma il genocidio armeno è un'altra cosa - di richiamare l'attenzione sulla tragedia dei cristiani d'Oriente, minacciati nella propria stessa esistenza da ribelli e terroristi di varia sorta e da quelle potenze che sostengono tali combattenti. Si parla dunque del genocidio armeno per ciò a cui può servire, non per quel che è stato.

Voi direte: intanto se ne parla. Ma quale lascito, quale autorevolezza, quale resistenza nel tempo e negli animi può avere un riconoscimento che - a torto o a ragione - venga presentato come strumentale, ambiguo, tutto figlio del proprio presente?

Anche la discussione sui recentissimi sforzi del regime ucraino per criminalizzare l'eredità sovietica e i "simboli comunisti", da un lato, e dall'altro per riabilitare e onorare la memoria del locale movimento nazionalista e collaborazionista, anch'esso attivamente coinvolto nel genocidio ebraico e autore in proprio di sistematici massacri "indipendenti", sembra aver percorso la medesima china: chi in Occidente ha criticato questi provvedimenti ha sostenuto, per lo più, che vengono utili alla Russia, la quale ha da sempre denunciato la componente ultranazionalista del nuovo potere ucraino; altri, al massimo, hanno saggiamente notato che una narrazione decisa per legge non può che approfondire gli odî e le incomprensioni, in uno stato tanto diviso e con una storia così frammentata.

Ma se pure certe argomentazioni vanno a segno, per ciò che riguarda l'Ucraina, l'Armenia, o in generale, pure l'arma è sbagliata e, come dire, non si possono contare i punti. La storia non può essere una funzione del presente; se così fosse saremmo condannati a vedere eventi controversi, e interi periodi "dannati", sparire e ricomparire a seconda delle convenienze momentanee e delle volontà politiche. Per lo stesso motivo, d'altronde, non può esistere una verità fissata per legge: nuove ricerche verranno, miglioreranno la conoscenza degli eventi, forniranno nuove chiavi di lettura, e in parte modificheranno la percezione di qualche avvenimento. Ma questo, a ben vedere, è ciò che accade a tutte le scienze; pian pianino nuove scoperte e nuove spiegazioni limano le precedenti, e certe volte ne superano delle parti. La storia, che è la chimica e la fisica degli esseri umani, si muove e si muoverà su binari simili.

Ma affermare che storia e politica debbano essere indipendenti non può far ignorare gli stretti legami e parallelismi fra queste due discipline umane. Alla seconda non compete di indicare allo storico i campi permessi nella ricerca o le verità assolute da confermare; ma spetta l'onere di mantenere la libertà di studio e di dissenso, in mezzo a tutte le altre libertà da costruire e tutelare. Anche e forse soprattutto per non lasciare a qualche negazionismo peloso l'alibi facile e il brivido di combattere, almeno a parole, le strumentalizzazioni e le ipocrisie del politicamente corretto: quando invece, come nel caso del genocidio armeno, ciò che si compie in effetti è un'operazione tanto poco nobile e umana.

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