La comoda perennità dei Balcani

Si è giocato venerdì a Zagabria, per le qualificazioni al Mondiale del prossimo anno in Brasile, l’incontro fra le nazionali di calcio di Croazia e Serbia. La partita, assai bruttina, è terminata 2-0 per i più esperti e navigati croati, …Leggi tutto

Si è giocato venerdì a Zagabria, per le qualificazioni al Mondiale del prossimo anno in Brasile, l’incontro fra le nazionali di calcio di Croazia e Serbia. La partita, assai bruttina, è terminata 2-0 per i più esperti e navigati croati, che si sono limitati di fatto a sfruttare l’inadeguatezza ad alti livelli della nazionale serba. Non si sono registrati incidenti allo stadio, in cui d’altronde non c’erano tifosi serbi, né nervosismi particolari in campo.

Per come la stampa italiana e occidentale aveva presentato il match, questa pare una notizia. Se però si analizza la cosa in maniera razionale, non stupisce affatto che quella che veniva descritta come “molto più di una partita” sia stata in realtà solo una partita. Perfino i modi in cui si è manifestato il tifo croato allo stadio Maksimir lo indicano senza possibilità di dubbio: non si sono stati richiami  alla guerra del ’91/’92 né al regime ustaša croato, responsabile durante il secondo conflitto mondiale di un genocidio ai danni dei serbi di Bosnia-Erzegovina e Croazia. I cori macabri e d’odio, che si sono ascoltati, sono stati però quelli generici e “normali” di una partita di calcio fra rivali, con il contorno di aggressività più o meno ritualizzata che conosciamo tutti; e a fine partita gli stessi tifosi che avevano cantato “Ammazza, ammazza il serbo” hanno ironicamente ritmato “Siniša, rimani”, chiedendo al selezionatore serbo di continuare la sua deludente esperienza sulla panchina della nazionale.

La semplice realtà è che siamo nel 2013 e che Croazia-Serbia è, in molti sensi, una partita come le altre. Prima di tutto, sono passati vent’anni dalla fine della guerra civile fra i due popoli; ed è evidente che un giornalista che avesse descritto un Inghilterra-Germania Ovest del 1965 facendo riferimento pedissequo alle categorie della Seconda guerra mondiale sarebbe stato trattato da pazzo irresponsabile. Inoltre, la divisione bidecennale fra i due paesi ha portato all’ovvia conseguenza che le nuove generazioni serbe e croate non si frequentano, non si conoscono, e non hanno in effetti motivo di odiarsi e combattersi. Semmai, tale distanza crescente rischia di cancellare anche i lati positivi di un lungo cammino comune (ma non divaghiamo).

Invece i media occidentali parlano dei Balcani come se fossero ancora gli anni Novanta, con un tono insieme paternalistico e allarmistico e con la necessità sempiterna di trovare un capro espiatorio per dei misfatti che ormai per i balcanici stessi non rappresentano da tempo il centro del dibattito. Il problema però non è solo professionale e deontologico; una rappresentazione datata e inutilmente drammatica non è soltanto inutile alla comprensione dei fatti, ma, in un’epoca in cui l’opinione pubblica influenza i governi e decide i modi e le priorità degli interventi, è dannosa: perché condanna a essere visti e trattati come immobili, litigiosi e perduti interi popoli che invece, fra contraddizioni e lentezze, sono invece in marcia verso standard decenti di progresso civile (ad esempio stadi in cui si insulta, sì, ma si è smesso di ammazzarsi) e verso quella stella polare che per loro – illusi? – è l’Europa.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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