I mali della Storia

Quando un cittadino ha notizia di un crimine, è buona regola che si rechi dalla polizia a denunciarlo, facendo così ciò che gli è possibile per ristabilire il diritto; quando è un’opinione pubblica a sapere di un delitto, deve mobilitarsi …Leggi tutto

Quando un cittadino ha notizia di un crimine, è buona regola che si rechi dalla polizia a denunciarlo, facendo così ciò che gli è possibile per ristabilire il diritto; quando è un’opinione pubblica a sapere di un delitto, deve mobilitarsi in piazza, scrivere sui giornali, agire attraverso la politica, insomma compiere ogni passo per far sì che il caso venga portato davanti a una corte e giudicato secondo gli ordinamenti vigenti.

Questa seconda fattispecie, lo sappiamo, è alla base di tanti attivismi che conosciamo e stimiamo, e di cui magari abbiamo fatto parte nei modi che ci sono propri. Ma qual è il compito della società e dell’opinione pubblica di fronte a un crimine ormai compiuto, lontano, i cui effetti non sono più contrastabili, ma che restano comunque di fronte agli occhi di tutti come uno sbrego sulla carne viva? È una domanda che mi faccio a volte, ma che mi torna in mente immancabilmente ogni 24 aprile. Il 24 aprile, come saprete tutti, è il giorno in cui si ricorda il Genocidio Armeno (Medz Yeghern), ossia la decisione di eliminare la popolazione armena compresa nei territori dell’allora Impero Turco, presa dai vertici del governo ottomano nel 1915 e portata avanti con decisione nei due anni successivi (nella notte del 24 aprile fu la comunità armena di Istanbul, quella delle élite intellettuali, religiose e politiche di quel popolo, a subire la prima ondata di arresti e omicidi).

La questione che mi pongo, da storico, è che senso abbia ricordare quell’evento, che non ha ormai responsabili diretti o indiretti, né eredi politici indiscutibili. D’altra parte non è proponibile alcuna sanzione per quel crimine, né in termini realistici (il genocidio ha ottenuto i propri scopi, e lo status quo dell’area si è adattato a questo dato di fatto), né in termini teorici (punire chi? per cosa?). Per l’Olocausto ebraico, e in genere quando si commemora la seconda guerra mondiale, si sente spesso dire che si deve ricordare per non ripetere. Mi pare però che in questo caso una frase simile suoni beffarda, dato che presuppone una condanna e una censura che in questo caso non ci sono mai stati, o comunque non hanno mai raggiunto i mandanti e gli esecutori di quel genocidio; e dunque cosa non va dimenticato, cosa non andrebbe ripetuto: il massacro di centinaia di migliaia di persone o il fatto che quel crimine sia perfettamente riuscito? E tuttavia la memoria non serve neanche a coltivare una vendetta che sarebbe ugualmente disumana, né a invocare una “giustizia” parificatrice, la quale nei rapporti fra Stati e nazioni non è mai esistita e non può esistere.

A mio parere, dunque, la memoria serve a se stessa e a fondare il presente, non a influenzare il futuro o a insegnare la vita: il fatto che la Storia umana sia stata segnata da quella negazione dell’umanità (e da tante altre) ci definisce tutti, perché siamo figli di quella storia, ma non deve chiamarci a furori rinnovati, né spingerci a batterci per principi forse giusti in teoria, ma in grado nella pratica di insanguinarci ancora, perché ciechi e poco flessibili. La memoria invece è un’altra cosa: è sapere che possiamo essere bestie e rimanere fedeli ogni giorno all’umanità, consapevoli che tutti i morti per mano umana sono i nostri morti e vanno onorati; e che tuttavia non esistono condanne definitive, e che siamo liberi e responsabili delle nostre scelte e della nostra umanità.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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