Falso

Questo post è interamente falso, da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare; ma non disonesto, se non altro, giacché ne dichiaro fin d’ora le gravi, imperdonabili storture. Scrivo in treno, come spessissimo mi capita. Sto tornando a casa, …Leggi tutto

Questo post è interamente falso, da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare; ma non disonesto, se non altro, giacché ne dichiaro fin d’ora le gravi, imperdonabili storture.

Scrivo in treno, come spessissimo mi capita. Sto tornando a casa, al posto che chiamo casa ma in cui non possiedo nessuna abitazione: è il mio paese, quello in cui ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza. Manco da un po’; e sono contento, di quella contentezza pallida che non è allegra e che si manifesta poco – d’altronde sono in treno, e il russo seduto vicino a me chissà come la prenderebbe, se mi mettessi a suonare la trombetta. Nella mia contentezza c’è l’attesa, c’è la serenità delle cose certe, che sono i luoghi, gli affetti, le amicizie; e c’è anche qualcosa di infantile, la curiosità per le cose che mi succederanno in due o tre giorni di festa. D’altra parte non c’è nulla che attenui questi sentimenti: per la mia cittadina non provo rancori; è un luogo da cui bisogna andarsene per forza, e non mi ha mai illuso, mai m’ha fatto pensare che sarei potuto rimanere dentro quelle mura. IL rapporto è franco e maturo, fra me e la vecchia fortezza fra i monti. L’unico motivo di dispiacere, ecco, è la brevità del mio soggiorno. Ma non sono neanche a metà del viaggio e ancora non ci penso.

Quando voi leggerete, invece, sarà domenica sera o forse già lunedì, se adottate la sana abitudine di dedicare la domenica a qualcosa d’altro dallo schermo di un computer. Per allora vedrò già vicina la partenza e la fine della licenza, per così dire; e non conterà più la gioia che ho provato nel ritornare né il divertimento con gli amici di sempre. O forse renderà più bruciante la necessità del distacco. In questo momento, mentre voi leggete, il paragrafo precedente non ha più senso; mi irride, anzi, e io lo rinnego come mai vergato.

Ma ora è venerdì e sto viaggiando in treno. L’ho detto sopra: vado a una festa, la festa del mio paese. Com’è logico per un posto fra le colline marchigiane, è una sagra dedicata all’uva; e generalmente viene onorata come si deve, con dedizione locale (siamo gente semplice, com’è noto, forse non flessibilissima dal punto di vista mentale: perciò lavoriamo quando ci dicono di lavorare e festeggiamo se ci suggeriscono che è festa). E già pregusto la festa, con la brama bambinesca che ho descritto sopra: e mi piace essere ancora all’inizio, avere tutta la torta da mordere, tutta la marmellata da gustare dopo aver rotto l’esterno. Un mio celebre conterraneo, lui sì una bella testa, declinata oltretutto in maniere e manie evidentemente marchigiane, ha già dimostrato con argomenti definitivi che il giorno migliore, quando c’è una festa, è quello che la precede; e io accetto questa affermazione e ne gioisco, perché oggi è venerdì.

Al contrario, per voi che leggete, la festa è già trascorsa. Ne restano al più gli ultimi brandelli, gli amici che se ne vanno alla spicciolata, e diversi ne rivedrò solo alla prossima risalita verso le colline; mentre voi leggete il dì di festa, benché doppio, è terminato, e gli ultimi ritardatari vanno a casa quando già circolano le corriere e i miei compaesani più giovani si allenano ad andarsene. Non c’è più molto da festeggiare, dentro le mura di una cittadina gloriosa ma poco favorita e poco amata dalla modernità, che non le consente di festeggiare che pochi giorni all’anno. Per il resto, sono giorni grigi, di spessi silenzi e larghi vuoti.

Però in fondo mi piace anche pensare al lunedì mattina, anche se vuol dire che è tutto finito e che devo ripensare al lavoro e a tante altre cose non facili da sbrogliare. Mi piace il lunedì mattina, anche se la notte ha portato pioggia e ha lasciato le strade sporche di cartocci umidi: aspetto che sorga il sole e illumini il panorama che sento mio, mille colline imperfettibili e in fondo il mare. Giacché ci sono momenti, e non solo luoghi, che uno può chiamare casa.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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